IL SEGNO RACCONTA

27.01.2016 15:40

Il segno ha sempre rappresentato per Triacca l’elemento base della sua scrittura figurativa. Fin dai primi disegni è stato cifra stilistica dell’artista. Tracciato con il colore, con il pennello, con la grafite, con il carboncino o con la punta secca e il bulino, è servito per indagare le forme, per strutturare le immagini, per osservare la conformazione e la geometria degli oggetti. Nella prima metà degli anni settanta, il segno è stato protagonista libero, non totalmente avulso da intenti strutturali e compositivi, ma più ingenuo e spontaneo nella sua formulazione. Dal momento in cui Triacca “scopre” ed utilizza coscientemente i principi della percezione visiva, grazie ai quali il segno, organizzato in immagini, trova collocazione e pregnanza, la traccia lasciata dal pennello o dalla grafite acquistano sempre più autonomia. È così che dal 1975 circa Triacca inizia un nuovo percorso di indagine che egli stesso definisce con il titolo “Il segno racconta”. Sotto questa sigla, che è anche dichiarazione di poetica, sono riuniti diversi soggetti: il segno può raccontare la figura, la conchiglia, il nido, la cavalletta ma con maggior frequenza e interesse il segno racconta soprattutto il paesaggio.

 

 

 

Il paesaggio

La pittura di paesaggio è sperimentata dall’artista fin dal periodo di studio all’Istituto d’arte di Monza. Il primo approccio avviene infatti negli anni della formazione insieme ai pittori monzesi che insegnavano all’Istituto. In quegli anni Triacca partecipa a diverse escursioni al parco di Monza e nelle zone circostanti, o anche in paesi fuori porta, come Trezzo d’Adda. Il primo passo è sempre l’osservazione dal vero. Queste esercitazioni per così dire “en plein air”, sono eseguite con il cavalletto posizionato in un luogo all’aperto scelto dall’artista.  Triacca produce numerosi schizzi e studi dipinti direttamente sulla tela o sul foglio. È, in questa prima fase, un tipo di pittura di carattere impressionista, rivolta essenzialmente allo studio delle qualità ottiche del colore e della luce e dei loro rapporti cromatici. Solo in seguito l’attenzione viene rivolta anche alla definizione delle forme, alle geometrie dello spazio e all’analisi delle masse, percepite come pieni e vuoti che scandiscono lo scorcio paesaggistico, in un’ottica quasi cezanniana.

È intorno alla metà degli anni settanta che la sua pittura di paesaggio diventa pretesto per indagare il segno. Triacca mantiene un rapporto sempre vivo con l’osservazione dal vero, che ritiene indispensabile  alla formazione dell’immagine. Tuttavia nei suoi lavori è sempre il segno a scandire la rappresentazione. Qualsiasi soggetto osservato e tradotto sulla superficie pittorica viene delineato e allo stesso tempo trasfigurato dal segno, che fa da tramite alle emozioni che il paesaggio suscita; esso rappresenta la scrittura personale del pittore, il cursore che registra la carica emotiva del gesto e l’immediatezza della trascrizione pittorica.

Con il passare del tempo il paesaggio di Triacca, osservato e vissuto, diventa immagine e colore nella sua mente, si trasforma e si sviluppa, nel sedimentarsi delle sensazioni provate “dentro” il paesaggio stesso,  percorso e familiare. Egli dipinge sempre dal vero, ma questa pratica diventa una fase precedente alla realizzazione delle opere, nella quale egli acquisisce le immagini, le studia, le “apprende” e le interiorizza, per poterle utilizzare nella realizzazione del dipinto, che avviene in studio, successivamente all’osservazione diretta. Questi frammenti di paesaggio vengono così richiamati alla visione e prendono nuova forma direttamente dall’idea mentale dell’artista sulla tela o sul foglio. L’osservazione profonda della natura gli consente di comprendere la genesi delle forme naturali, di scoprire la dinamica stessa del processo di crescita, di mutamento, di erosione e di movimento del paesaggio e di farla propria per poterla rimettere in gioco nel processo di produzione del segno e dell’immagine. È questa un’ottica che si avvicina e prende ispirazione dalla pittura di Paul Klee, secondo il quale “l’arte non ripete le cose visibili, ma rende visibile”[1]. In questo senso è fondamentale la scoperta dei meccanismi di genesi formale, dei principi secondo i quali il paesaggio si configura, delle dinamiche della linee, dei contorni dei piani che si incontrano e si incastrano.

Il paesaggio presente nelle sue opere è quindi un suo personale paesaggio, un paesaggio della memoria. Le immagini e i colori della Brianza, percorsa a piedi e in bicicletta, quelli della Toscana o delle Marche, visitati personalmente, si mescolano nella sua mente e compongono il suo immaginario.

Le linee dei contorni, le foglie, gli alberi, le strade, le alture, i fili d’erba sono miniere di segni. Il disegno tracciato a matita, con l’acrilico, con l’olio o con gli acquerelli, eseguito in un secondo momento in studio, rappresenta il luogo nel quale l’artista compone e ricompone ciò che ha osservato. Egli cerca innanzi tutto una scansione spaziale, una struttura nella quale e sulla quale si inseriscono i soggetti, i quali cancellano e nascondono in parte lo scheletro sottostante. Entro questo scheletro il segno indaga le forme ma più di tutto se stesso, nel suo configurarsi, nel suo susseguirsi, direzionarsi, aggrovigliarsi, sciogliersi.

“Amo pensare al paesaggio come memoria di segni, di tracce, di profili di architetture. Presento a volte il cielo incuneato nella terra, oppure il paesaggio come pelle che avvolge una struttura o addirittura che sta appeso.”[2]

Il paesaggio non è propriamente descritto ma è evocato da allusioni. Racconta luoghi mentali più che fisici. Il suo sguardo non è più analitico, ma percettivo, intuitivo.  Mantenendo sempre quella libertà espressiva del gesto, spontaneo e libero di percorrere la superficie, Triacca crea un suo personale inventario di figure e tracce, che, come frammenti, si inseriscono e trovano posto sulla superficie, acquistando significati che trascendono la mera descrizione dell’oggetto. 

“In realtà la ricerca di Triacca, che parte da emozioni naturalistiche e immediate si carica di una tensione simbolica”.[3]

Un volto, una conchiglia, una cavalletta fanno capolino nell’immagine ma risultano quasi trasfigurati e sembrano nel contempo alludere all’oggetto ma anche ad altre forme.

Il paesaggio di Triacca si avvicina in qualche modo alla pittura neofigurativa lombarda, quella ad esempio di Bellandi e di Forgioli. Si tratta di una pittura a soggetto figurativo, soggetto che viene scomposto, scardinato, quasi sviscerato dal segno e dal colore, perdendo il carattere di imitazione e assumendo forti impronte emotive.

Verso la metà degli anni settanta Triacca inizia a sperimentare nuove tecniche, oltre alla pittura ad olio e a quella acrilica su carta o tela. La serie legata a ”Il segno racconta” viene declinata in una serie di lavori con i quali il pittore utilizza il segno pittorico su diversi supporti e con diversi materiali, ottenendo così con lo stesso linguaggio risultati differenti e sempre nuovi.

Triacca si confronta con la tecnica incisoria, che gli permette di sfruttare appieno tutte le qualità del segno; inoltre dal 1976 inizia a tradurre i disegni e i dipinti su carta e su carta intelata sulla tela con la pittura ad olio. Sperimenta anche una pittura fatta di un impasto dei gesso e colori stesi su tela juta. Infine affronta anche la tecnica dell’affresco, adattandola alle sue esidenze.

INCISIONI

Uno dei primi mezzi con i quali Triacca studia e affronta l’analisi dell’oggetto e del paesaggio attraverso il segno è la tecnica dell’incisione.

“L’esperienza dell’incisione ha rappresentato per me la scoperta e l’analisi del segno. Il segno è diventato in alcuni miei lavori il vettore dove organizzare e costruire la struttura compositiva. La prima e maggiore indagine progettuale e poetica dell’immagine”.

Si tratta soprattutto di acqueforti e acquetinte.



[1] P. Klee, “Teoria della forma e della figurazione”, vol.1, Feltrinelli, Milano, 1959, pag. 76

[2] A. Triacca, intervista di Miriam Polacco,in “Ai giovani consiglio di non prendersi sul serio”, L’Esagono, 15 Marzo 1993.

 

[3] E. Pontiggia, “Dentro il paesaggio”, presentazione in catalogo, galleria civica E. Mariani, Seregno, 1990.

 

 

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